Viaggiare ma non partire
Quando ero bambina l’estate aveva un odore. Iniziava nel mese di maggio, imponendosi tramite un sole che da tipiedino si trasformava improvvisamente in cocente. L’aria frizzantina del mattino annunciava l’arrivo del solleone delle ore seguenti. I vestiti diventavano sempre più colorati, accorciandosi progressivamente col passare dei giorni.
L’arrivo dell’estate corrispondeva ad un aroma chimico: un odore di crema protettiva o olio jonhson che sembrava propagarsi in città. I patiti della tintarella iniziavano a riempirsi di crema per dorare al sole durante ogni momento libero. Molti, in assenza di tempo o mezzi, si abbronzavano sul balcone. Questo contribuiva a diffondere l’odore ovunque.
Vorrei la pelle nera, era il motto dei giovani degli anni ottanta e novanta. Chissà perché oggi, quei giovani di allora sembrano essersene dimenticati. La pelle imbrunita dal sole era sinonimo di bellezza, di vacanze (annunciate ancor prima della fine della scuola), ma anche di leggerezza. Quella stessa leggerezza che faceva infuriare i professori dei maturandi.
Quell’odore dolciastro ha accompagnato la maggior parte degli inizi d’estate della mia infanzia. Quando mi annoiavo a scuola mi permetteva di evadere, trasportandomi in spiaggia in un baleno. E a volte, quando torno in città, pur non andando in spiaggia, mi sembra di sentirlo. Lo sento nel ricordo del tragitto tra casa e scuola, nel ricordo delle mattinate in spiaggia con i miei genitori o con i nonni.
E, sebbene le protezioni solari di oggi siano meno profumate, quando a Parigi l’estate tarda ad arrivare, mi capita di odorarle. E allora viaggio nel tempo e torno all’infanzia, alla leggerezza e a quella città lontana, di cui racconto spesso a Lilou, che è la mia per sentirmi a casa.