Aprile non levare e non mettire, ripeteva ogni anno mia Nonna, quando i primi raggi di sole invogliavano a svestirsi dei pesanti abiti autunnali. E quell’anno, il mese di aprile non era mai stato così speciale. Eravamo nel paese del Sol Levante, nel pieno periodo dei sakura in fiore, alla ricerca di posti che rompessero la monotonia quotidiana, ricaricandoci l’anima e la mente.
Dopo una mattinata di pioggia, il sole era tornato a splendere su Tokyo. L’odore della pioggia esaltava la bellezza dei ciliegi in fiore. La città risplendeva di una luce irreale a tal punto che seguire l’itinerario previsto aveva perso ogni interesse. Dall’altro capo del mondo, quella primavera di colori, invitava a perdersi, a guardarsi intorno con il naso all’insù, a respirare quell’odore di primizie e di natura in risveglio, resistendo al cemento, alla civiltà e all’edilizia selvaggia.
Senza meta precisa, Tokyo sembrava un labirinto infinito. Ed era dolce l’idea di perdersi tra vetrine e strade che, abbandonato via via ogni connotato turistico, riflettevano la normalità di un luogo, celandone l’identità più intima.

Ed ecco che in una stradina secondaria, nel quartiere di Nihonbashi, una coppia camminava scambiandosi sguardi d’intesa, mentre una pioggia di petali di ciliegio, accompagnava i loro spostamenti. Atteggiamento curioso, il loro, che si scambiavano in pubblico corrispondenze di amorosi sensi, contrariamente all’etichetta giapponese. Erano talmente belli che distogliere lo sguardo da loro sembrava impossibile. Ne eravamo come iptonizzati. Li seguimmo, senza neanche metterci d’accordo, ma loro, voltato l’angolo, si misero in fila. Questa arrivava alla strada e proseguiva sù per le scale. Incuriositi ci accodammo. Dopo qualche passo, scoprimmo di essere al SUITENGU SHRINE, il tempio dedicato al dio Suiten, votato al concepimento e al parto senza complicazioni. Ci guardammo negli occhi, ci prendemmo per mano ed avanzammo, scalino dopo scalino, verso l’ignoto.

Coincidenza strana per due persone come noi che di figli avevano appena iniziato a parlare. E senza capire esattamente come, ci unimmo silenziosamente alle coppie che chiedevano benedizioni al dio perché le loro famiglie proliferassero. Tra loro, la coppia che avevamo seguito casualmente. Un inchino, tre battiti di mano. Un altro inchino, la preghiera silenziosa ad occhi chiusi. Lo squotimento di una corda legata a numerosi campanacci ed un inchino finale, prima di lanciare qualche yen. Ed ecco che come gli altri, eravamo stati benedetti.
«Santa Rusalia, a prima vuci!», avrebbe detto mia nonna, dall’altro capo del mondo, per riassumere quella benedizione. Non solo la gioia di un figlio in arrivo, ma anche quella di un parto rapido e senza complicazioni, a prima voce. Strano come il mondo, cosi’ diverso e ricco di culture differenti, riesca a sembrare simile quando due persone che si amano vogliono un bambino.
Il mese dopo arrivò la conferma di un dolce sospetto: un girino che cresceva nella mia pancia avrebbe stravolto la nostra vita. Ma noi eravamo sorridenti, ci guardavamo negli occhi e ci tenevamo per mano, felici. E galeotti fuorno i sakura in fiore.
Sul Giappone: Hiroshima.
J’adore ❤️